CRITICAL TEXTS
[…] È chiaro infatti che il “fenomeno beat ” (tanto per usare un termine di comodo), poiché di questo si tratta, assai prima e assai più di una moda è un importante fatto culturale, forse il più importante del secolo … […] Orbene: da due o tre anni a questa parte le pattuglie avanzate di questo movimento (vogliamo chiamarlo così?) hanno cominciato a entrare nei grandi quadri di Salvatore Fiume, a popolarne le isole un tempo deserte, ad arrampicarsi sulle spalle e sulle teste delle sue statue gigantesche, ad accovacciarsi ai piedi delle sue donne discinte nelle alcove spagnolesche, a far da controfigura ai suoi toreri ed alle sue danzatrici: sempre perfettamente a loro agio, e non soltanto per gli armoniosi accordi cromatici fra i loro vestimenti e la tavolozza di Fiume, sì anche per le loro positure, il loro atteggiarsi, la loro mimica, il tenero languore, la contenuta, pigra violenza, la somma di tutti gli elementi che ne determinano la vitalità profonda e gloriosa.
…Io conservo, di Salvatore, un ricordo vecchio mezzo secolo e più. È il ricordo di un pomeriggio d’estate nel suo primo poverissimo atelier di paese, a Comiso, dove entrambi siamo nati. Rammento un raggio di sole sbieco su un cavalletto malfermo; e sul bianco del foglio un ulivo assalito da uccelli neri, che levava le sue fronde verso la luce. Rammento il mio confuso stupore e la gioia, per quel nascere argenteo di foglie sotto il lapis, per quel torcersi improvviso di rami nell’aria, improvviso come al tempo del primo albero e del primo uccello, nel giardino di Adamo ed Eva. Salvatore era allora un diciottenne spiritato e magro, simile all’ulivo del suo disegno, salvo che per un lampo di giovane riso negli occhi, dove la sua crescita in uomo mandava i primi barlumi. Su un tavolo s’ammucchiavano libri che sfogliai con mani bambine: un Viaggio in Spagna, illustrato dal Doré; un Paolo Uccello, un Piero della Francesca…doveva esserci una ragione se si trovavano lì…
…Da Comiso Fiume approdava a Urbino, patria di Raffaello. Ecco allora sbarcare sulle sue isole statue, cavalli-sfera e cavalli-piramide ben pesanti e pasciuti alla Paolo Uccello, e intere città quattrocentesche, senza però che l’artista tenesse presenti le auree proporzioni a misura d’uomo secondo i dettami rinascimentali. Sono invece le fantastiche immagini ciclopiche ad attrarlo. È il «complesso di Golia», come lo definiva l’amico Dino Buzzati, poiché nessuna dimensione appare soddisfarlo. Per quel suo bisogno di immaginare e fare le cose in grande, e vivere in un mondo fantastico di immensa metratura, gli stessi fogli poco più ampi di un fazzoletto sembrano gonfiarsi, ingrandirsi sotto il peso di tutte le civiltà racchiuse in essi. La pittura di Fiume appare quale immensa scenografia impreziosita dagli smalti e dalle lacche, e finisce con l’approdare anche sul palcoscenico. Fu Alberto Savinio, colpito dalle doti del giovane siciliano, a suggerire al Teatro alla Scala di affidare a Fiume l’ideazione di scene, costumi e sipari per la Vita breve di De Falla, in sostituzione di Salvador Dalì. Memorabile è la sua Medea scaligera interpretata da Maria Callas e diretta da Leonard Bernstein, come pure la sua rivoluzionaria Aida del Covent Garden di Londra, con colori cupi e apocalittici che incupivano la stereotipa immagine di un Egitto solare…
Non tutti i dipinti di Salvatore Fiume che figurano attualmente nella collezione del Museo Vaticano d’Arte Moderna – pur se prescelti da un’apposita commissione di questo, donati in connessione con la committenza da parte di Paolo VI di una Crocifissione destinata appunto a tale collezione – risultano in realtà di soggetto “sacro”: anzi alcuni sono invece di carattere esplicitamente “profano”. D’altra parte non tutte, né le maggiori, pitture di tematica “sacra” realizzate da Fiume nel tempo figurano in tale lotto di sue opere nella collezione vaticana, pur se recenti come quel crocifisso triumphans del 1986, intitolato appunto Christus vincit; o, per fare un altro esempio, la cospicua coeva Deposizione; ambedue esposti nell’antologica di Fiume a Mosca nel 1991 e neppure la grande Ultima cena, del 1995. Non credo che ciò sia del tutto occasionale, quanto invece risponda se mai occasionalmente a un’effettiva condizione dell’immaginario dell’artista siciliano. […] Giganteggiante monumentalità arcaico-metafisica e sensualità esplicata attraverso l’intrisione del richiamo iconico entro la qualità stessa di una dimensione pittorica materiosa, spatolata, goduta in tutta la sua fisicità: paradossalmente ambedue queste componenti dell’immaginazione di Fiume sono attestate nel lotto di sue opere prescelte per la raccolta vaticana. Rispondendo più dunque a un’intenzione di documentare il suo lavoro nella naturalezza del proprio fluire immaginativo che non alla parzialità (che non sarebbe stata comunque motivata) di ritagliare in tale lavoro soltanto esiti appunto di attinenza “sacra”. E tuttavia ciò in ragione del fatto che questi affiorano entro tale naturale, e direi felice, sensualmente soddisfatto, fluire immaginativo, senza nettamente isolarvisi, né come occasione. […]
Da dove arrivano mai queste anime zazzerute? Salvatore Fiume mi raccontò di aver studiato i beats per oltre due anni: a Vienna, Amsterdam, Parigi, Londra; poi sulle coste della Spagna e della Jugoslavia, ed infine in Israele. Per oltre due anni aveva girato il mondo alla ricerca degli elementi con i quali comporre quella “grande festa” che aveva sognato fin da giovane. E la “grande festa” era lì davanti a noi… […] I beats, Fiume li incontrò, per la verità, intorno al 1944 quando illustrò il Satiricon di Petronio Arbitro con disegni strabilianti per nitidezza, invenzione, fantasia. ( Sembra quasi incredibile che un giovane di appena vent’anni fosse così abile e perfetto). Erano certo beats ante litteram, forse più estrosi e liberi di oggi; certo non posavano, non protestavano, non pensavano nemmeno lontanamente di essere alla ricerca di Dio (come afferma, da squisito bevitore, quel terremoto di Jack Kerouak), né se la prendevano con i governi (come fa quello spara fucile di Allen Ginsberg). […] “Io non ho voluto affatto”, mi diceva Fiume, “ documentare un fenomeno; ma ho cercato semplicemente di far diventare fatto d’arte uno spettacolo che sta svolgendosi nel mio tempo. È stato quindi per me un sentire e un approfondire vitalmente un problema nel suo aspetto dinamico. Ma è giusto dire problema? Forse sì, in quanto ogni uomo, sia esso cardinale o beat, è sempre un problema, almeno da un punto di vista… visivo. Dicevo prima che io cercavo un motivo che mi riportasse in qualche modo alle rappresentazioni pittoriche del Tre e Quattrocento, a quando cioè venivano raffigurati sui muri re e principotti con i loro giullari, le loro dame, i loro cani… Ebbene, ci sono arrivato: i miei principotti hanno la chitarra al posto dello scettro; le dame invece dei manti tempestati di gemme hanno la minigonna. Ma è lo stesso spettacolo, lo stesso furioso pellegrinaggio, anche se sono cambiati gli abiti e gli attori. È lo stesso “ trionfo della morte “ ? Non lo so, non sta a me scoprire ragioni e significati filosofici nello spettacolo che mi ha colpito o suggestionato; io ho cercato soltanto di esprimerlo pittoricamente, dopo averlo sentito palpitare nelle mie mani”.
Il merito fu senz’altro di Papa Montini e molto si deve alla sensibilità artistica e alla lungimiranza di Mons. Pasquale Macchi, allora segretario particolare di Paolo VI, se questa splendida collezione di oli fu assemblata e in blocco poté varcare la soglia dei Musei Vaticani, destinata ai cultori d’arte e ai cristiani di ogni tempo che nell’arte sanno trovare una traccia di Dio, una via dell’assoluto. Domandai una volta a Fiume: “Maestro, nel dipingere una crocifissione o una Madonna, un Cristo giudice o un Bambino a Betlemme, non le è mai successo di sorprendersi a pregare?”. “Sì – mi rispose – ma non è una vera e propria preghiera: è una conversazione pacata, come parlare al telefono con un amico. Non sento Dio sulla tela o nei colori, me lo ritrovo a fianco: una presenza discreta, che a volte suggerisce una soluzione pittorica e spesso tace, come chi sta a guardare e sorridere quando sbagli. Io penso che Dio sia un gigante che gioca a bocce con le stelle e i pianeti; la Terra è il suo boccino ma, quando si china sull’uomo, lo rende protagonista e questo minuscolo essere illuminato dalla sua attenzione diventa un santo, un eroe, un artista capace di inventare il bello”. L’arte di Salvatore Fiume non si è caratterizzata come un’arte religiosa impregnata di messaggi o protesa in una ricerca spirituale; per decenni il suo estro si è dilettato con i miti mediterranei, nelle rivisitazioni storiche di personaggi ed eventi; attraversato da una vena ironica ha folleggiato con i simboli, misurandosi con stili e stilemi di altri tempi e di altre culture. Le donne soprattutto hanno calamitato la sua attenzione e nel fascino dei loro colori puri e stregati egli ha vagabondato, inseguendole in ogni dove: negli harem, sui balconi d’oriente, nelle piazze andaluse, dietro ai ventagli giapponesi, sotto le palme e nei mercati di frutta della Polinesia. In questi ultimi dieci anni Fiume ha però scoperto il Vangelo, lo ha riletto e illustrato con ventiquattro oli e tanti, tanti bozzetti; poi, sollecitato dagli amici della San Paolo, ha messo mano alla Bibbia e nel 1995, anno della donna, ha licenziato il volume Le grandi donne della Bibbia, un nugolo di angeli suonatori dalle ali colorate e, quindi, I grandi uomini della Bibbia: patriarchi, re e profeti e ancora santi martiri, come le “santuzze” siciliane Agata, Lucia e Rosalia o santi monaci come Benedetto, Francesco d’Assisi e Padre Pio da Pietralcina. Quando nel sole di un mattino di giugno il Signore lo ha chiamato per mostrargli quanto sono più belli i colori visti nella Sua luce, lui stava lavorando a un trittico con angeli, Pietro e Paolo e un Cristo risorto e sorridente. L’ultima sua grande pala, destinata per testamento a Musei Vaticani, è stata la “Madonna del Giubileo”: a differenza della “Madonna d’Africa” – lo splendido olio che campeggia nella chiesa parrocchiale di Patti in Sicilia – nella quale la figura coronata come una regina, con il piccolo re in braccio, danza facendo vela con l’ampio vestito bianco arabescato d’oro, questa del Giubileo è ferma ma non statica, è la Madonna con la quale si ha un appuntamento: lei aspetta serena con una gran pace e una grande misericordia nella sguardo. Nel retro del quadro è scritto: “Una mamma per gli uomini del Duemila; una sorella e un’amica; la donna più donna: Dio l’ha scelta per sé e lui non sbaglia, scegliamola anche noi per il prossimo millennio”.
…Ci sono maniere molto diverse per visitare un altro paese. Il viaggiatore vuole arrivare. L’ospite vuole rimanere. Solo il turista vorrebbe già esserci stato e forse perché la sua macchina fotografica possa sfogarsi: delega ad essa il compito di fissare le cose così come io lascio che il mio cane capti a suo piacere le curiosità olfattive della strada. Ci liberiamo da questa umiliante condizione turistica se un amico ci attende nel paese per mostrarcene il vivere profondo. Quando il più grande poeta di questo mondo viaggiò attraverso l’altro, lo fece al fianco di un vecchio collega di nome Virgilio. Ebbene, Fiume ha visitato la Spagna guidato da tre suoi amici e colleghi: Velázquez, Picasso e soprattutto Goya. Così ha percorso a fondo tutto il paese senza il bisogno di uscire dal Museo del Prado. Potrà sembrare un viaggio impossibile a chi crede che la Spagna sia il confine del mare e porta con sé la sua macchina fotografica ansioso di folclore e geografia. Fiume, grazie a Dio, ha guardato la nostra cultura. Non cercava il paesaggio ma l’anima. Questa insolita memoria della mia terra non evoca infatti né scene né paesaggi spagnoli ma quadri e si compone così di quadri al quadrato, dipinti di dipinti. Il che, se si osserva attentamente, è proprio il contrario della copia. Il Museo del Prado è pieno di pazienti riproduttori di capolavori: sicuramente Fiume li avrà visti ed avrà riso non poco di questo assurdo artigianato, attento a ripetere l’oggetto inanimato dell’opera d’arte. Il copiatore crede d’imitare il pittore, mentre in realtà imita male quella macchina fotografica, della quale oggi ho deciso di parlar male. La stessa macchina fotografica che Fiume ha avuto la precauzione di lasciare a casa…
… Salvatore Fiume quando assunse il compito di istoriare queste vicende, si trovava di fronte ad una serie di problemi da risolvere, certamente non facili: l’anacronismo del suo rapporto obbligato con temi, iconografie e committente; la complessità dell’invenzione compositiva che richiedeva un’ampiezza epica di concezione e una grande perizia tecnica, infine il luogo intellettuale nel quale porsi per raggiungere uno stile significativo, in un panorama italiano che scintillava di ardori neofiti verso la cultura cosmopolita, filtrata vivacemente dopo i decenni più angusti del periodo fascista. Direi che ad ognuno di questi problemi il pittore seppe dare l’unica brillante risposta possibile: in stesure luminose e timbriche, di un olio che fà pensare piuttosto alla tempera o all’affresco per la grande leggerezza. Fiume coglie immagini e ritmi delle scene drammatiche e dei combattimenti con una sapiente naïvetéé, contrappunto ironico all’uso appassionato e virtuoso del linguaggio visivo della metafisica. Con l’immaginazione e la tecnica attente al grottesco e all’onirico delle “Battaglie di gladiatori” dechirichiani, o alle stilizzazioni arcaizzanti di Campigli e di altri artisti del Novecento, l’artista infatti, come un abile prestigiatore, fà scaturire di lì una folta messe di personaggi, di tagli compositivi complessi, di suggestioni poetiche. Ma soprattutto è l’indicazione di clima stilistico che gli fornisce la chiave per una personale evocazione di un repertorio più vasto, dove Paolo Uccello – che del resto aveva dipinto un avvenimento della storia umbra “La Battaglia di Sant’Egidio” -, Piero della Francesca, Giotto perfino, ma poi maschere primitive africane, stemmi araldici, arcaismi novecenteschi, sono usati con libertà ragionata e fantasia scatenata, con precisione mirabile o con ammiccante gioco teatrale, per realizzare una narrazione del tutto moderna ed aggiornata proprio nel suo anacronismo…