TESTI CRITICI

LUCA BEATRICE

da Ipotesi Fiume
dal catalogo della mostra Salvatore Fiume, un anticonformista del Novecento
Spazio Oberdan, Milano 2011

…Dopo quasi mezzo secolo di minimalismo, di fredda oggettualità che delega la realizzazione finale a un tecnico specialista o a un sistema di produzione industriale, ecco tornare il desiderio di adesione sentimentale, di un rapporto privato, intimo, tattile e sensuale con la materia e il supporto. 
Essendo questo il dibattito caldo nel presente, dobbiamo allora affermare che Salvatore Fiume a tale conclusione ci è arrivato poco meno di trent’anni fa, con un anticipo davvero sorprendente. Stiamo parlando del 1983 circa (allora il pittore siciliano aveva da tempo raggiunto piena maturità e notorietà) e in particolare di quel ciclo di lavori noto come Le Ipotesi, sorprendente e intuitivo per un artista comunque “etichettato” come tradizionalista, non fosse altro che il suo principale mezzo espressivo, dagli anni Quaranta in poi, è stato la pittura. 
Ma facciamo un passo indietro. Si pensa a Salvatore Fiume come a un anticonformista del Novecento, ovvero a un artista volutamente oltre le mode, deliberatamente concentrato sulla propria ricerca, poco incline a frequentare gruppi o sottoscrivere movimenti. Insomma, uno che andava per i fatti suoi, prendendosi gli indubbi vantaggi di originalità e fluidità del proprio errabondo pensiero ma altrettanto pagandone le conseguenze, poiché è fuor di dubbio che chi agisce in solitario fatica a trovare spazio entro griglie sistematiche. 
Azzardiamo invece un’altra, e spericolata, “Ipotesi Fiume”: ovvero che il pittore siciliano fosse in realtà un po’ troppo avanti rispetto ai suoi tempi e che pur disordinatamente, senza una precisa strategia, abbia intuito qualcosa che la nostra epoca riesce a leggere meglio del passato. Il ciclo in questione, approntato tra 1983 e 1992, funziona come un “remix” pittorico, un geniale anticipo della teoria della postproduzione in voga dagli anni Novanta, però raramente messa in pratica attraverso tele, colori e pennelli. Ci troveremmo dunque in presenza di un approccio radicalmente concettuale alla pittura, clamoroso per un figurativo puro e, talora (ma a questo punto ci viene il dubbio) tacciato di anacronismo. 
Rispetto al de Chirico autocitazionista, che Renato Barilli identifica come l’archetipo della pittura concettuale (mi riferisco alla mostra La ripetizione differente da lui curata allo Studio Marconi di Milano nel 1974), Fiume compie un deciso salto in avanti. In pratica decide di “ospitare” all’interno delle sue tele le repliche di altri colleghi, padri putativi, punti di riferimento: se da una parte possiamo considerarli degli omaggi, convince di più l’idea che abbia voluto in qualche misura, e con ironia, autoconsacrarsi all’interno della storia dell’arte, di una propria idea di storia dell’arte appunto “tutta contemporanea”, che poi è ciò a cui tutti più o meno aspirano. L’originalità del progetto consiste quindi nella lettura orizzontale della storia, un unico spazio in cui possano coesistere cose diverse in una sorta di non tempo astratto e anticonvenzionale… 

ROBERTO BORGHI

da La modernità come reinvenzione del classico 
Salvatore Fiume. Un classico moderno 
Mazzotta, 2009

Di un artista o di uno scrittore – ma spesso anche di un’opera, sia visiva che letteraria – si dice che “è un classico” solo a determinate condizioni: per esempio quando si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcuno o a qualcosa che travalica la moda culturale del momento, che costituisce un modello di compiutezza formale, che riesce a esprimere una tensione universale. 
…Proprio all’insegna della reinvenzione del classico si muove Salvatore Fiume durante tutto il suo percorso creativo. Fiume intuisce anzi che la riformulazione di questa categoria estetica può rappresentare una fonte di autentica modernità, e che una risposta nuova – cioè diversa da quelle fornite sino ad allora e in ogni caso più avanzata – al bisogno spasmodico di novità espresso dalle avanguardie sta in un rinnovato legame col passato. 
…Una “eco pietrificata” dell’origine sarà spesso presente nelle opere di Salvatore Fiume: la si avvertirà nitidamente nelle Casualità archeologiche e in maniera più sottile, ma non meno tangibile, in molti cicli pittorici. Nel suo complesso l’arte si configurerà sempre come una “cassa di risonanza” del tempo, come una dimensione il cui flusso cronologico acquisterà un “volume” estremamente ampio e vibrante.

LUCIANO BUDIGNA

I Beats di Salvatore Fiume
da Le Arti, supplemento al n.12
Milano, 1968

[…] È chiaro infatti che il “fenomeno beat ” (tanto per usare un termine di comodo), poiché di questo si tratta, assai prima e assai più di una moda è un importante fatto culturale, forse il più importante del secolo …  […]  Orbene: da due o tre anni a questa parte le pattuglie avanzate di questo movimento (vogliamo chiamarlo così?) hanno cominciato a entrare nei grandi quadri di Salvatore Fiume, a popolarne le isole un tempo deserte, ad arrampicarsi sulle spalle e sulle teste delle sue statue gigantesche, ad accovacciarsi ai piedi delle sue donne discinte nelle alcove spagnolesche, a far da controfigura ai suoi toreri ed alle sue danzatrici: sempre perfettamente a loro agio, e non soltanto per gli armoniosi accordi cromatici fra i loro vestimenti e la tavolozza di Fiume, sì anche per le loro positure, il loro atteggiarsi, la loro mimica, il tenero languore, la contenuta, pigra violenza, la somma di tutti gli elementi che ne determinano la vitalità profonda e gloriosa.

GESUALDO BUFALINO

da La vampa e la luce
Fiume e la Sicilia
Ediprint, Siracusa, 1985 

…Io conservo, di Salvatore, un ricordo vecchio mezzo secolo e più. È il ricordo di un pomeriggio d’estate nel suo primo poverissimo atelier di paese, a Comiso, dove entrambi siamo nati. Rammento un raggio di sole sbieco su un cavalletto malfermo; e sul bianco del foglio un ulivo assalito da uccelli neri, che levava le sue fronde verso la luce. Rammento il mio confuso stupore e la gioia, per quel nascere argenteo di foglie sotto il lapis, per quel torcersi improvviso di rami nell’aria, improvviso come al tempo del primo albero e del primo uccello, nel giardino di Adamo ed Eva. Salvatore era allora un diciottenne spiritato e magro, simile all’ulivo del suo disegno, salvo che per un lampo di giovane riso negli occhi, dove la sua crescita in uomo mandava i primi barlumi. Su un tavolo s’ammucchiavano libri che sfogliai con mani bambine: un Viaggio in Spagna, illustrato dal Doré; un Paolo Uccello, un Piero della Francesca…doveva esserci una ragione se si trovavano lì…

DINO BUZZATI

da Una città del Rinascimento giace in fondo all’Oceano
“Corriere della Sera”
16 dicembre 1956

…Raccogliete un sasso qualsiasi per la strada. Vi lascerà del tutto indifferenti. Il medesimo sasso, della medesima forma e materia, ingrandito mille volte farebbe già una certa impressione. Provate adesso a immaginarlo alto diecimila metri. Con la testa piegata in su, gli uomini resterebbero a contemplarlo per giornate intere, soggiogati; per vederlo arriverebbero turisti, pittori, fotografi e poeti da ogni parte della Terra. Vogliamo dire che la grandiosità, da sola, determina bellezza (così come al polo opposto, un’emozione estetica può derivare dalla piccolezza, dalla concentrazione, dall’intimità). Gli esempi potrebbero essere infiniti. Rimpicciolite il Gran Canyon o il Cervino alla dimensione di un paio di metri. Riducete la piramide di Cheope alla misura di un fermacarte: che cosa più ne resterebbe? Ebbene, questo sentimento della grandezza, come fonte di poesia – sentimento che, consapevoli o no, gli antichi Faraoni avevano probabilmente sviluppato in sommo grado – è, se non il motivo dominante, uno dei motivi dominanti in Salvatore Fiume pittore, scultore, incisore, scrittore, ceramista, scenografo… 

RAFFAELE CARRIERI

da Fiume
Edizioni Brera Galleria d’Arte
seconda ristampa, 1976

Quando venne a trovarmi la prima volta tanti anni fa, Fiume aveva con sé un rotolo di disegni alla china. Erano le sue prime cose che vedevo: c’era già lui tutto intero, aggrovigliato, fulminante, scherzoso, acrobatico, sfaccettato. Mi trasmisero fin dal primo momento una eccitazione incontenibile. Telefonai la sera stessa a Savinio che in quel tempo abitava in via Plinio. Il mio amico venne il giorno dopo e fummo in due a ballare. Ma il folgorante talento di Salvatore Fiume sta dentro alla pittura e non fuori. La sua materia pittorica riveste la straordinaria avventura delle forme con un flusso potente e improvviso che le determina in una espressione di estrema vitalità. Sono stufo di pittori che si atteggiano a pensatori e vivono di concetti e preconcetti. E anche di quelli che cambiano programma ogni trimestre. Non mi piacciono ottusi o comunque rozzi. E non mi piacciono cavillosi, disinfettati. Ogni tanto me ne piace uno. Quell’uno deve essere un uomo naturale, il più possibile aperto. Meglio, assai meglio se quell’uno sia, come Fiume, più caldo che freddo, e non pratichi la pittura come un chimico, ma sia di volta in volta saggio e pazzo, credente e fedele ai propri ideali, mai scettico, mai ristretto… 

VITTORIA CRESPI MORBIO

da Fiume paladino di bellezza
Il Giorno, 5 giugno 1997

…Da Comiso Fiume approdava a Urbino, patria di Raffaello. Ecco allora sbarcare sulle sue isole statue, cavalli-sfera e cavalli-piramide ben pesanti e pasciuti alla Paolo Uccello, e intere città quattrocentesche, senza però che l’artista tenesse presenti le auree proporzioni a misura d’uomo secondo i dettami rinascimentali. Sono invece le fantastiche immagini ciclopiche ad attrarlo. È il «complesso di Golia», come lo definiva l’amico Dino Buzzati, poiché nessuna dimensione appare soddisfarlo. Per quel suo bisogno di immaginare e fare le cose in grande, e vivere in un mondo fantastico di immensa metratura, gli stessi fogli poco più ampi di un fazzoletto sembrano gonfiarsi, ingrandirsi sotto il peso di tutte le civiltà racchiuse in essi. La pittura di Fiume appare quale immensa scenografia impreziosita dagli smalti e dalle lacche, e finisce con l’approdare anche sul palcoscenico. Fu Alberto Savinio, colpito dalle doti del giovane siciliano, a suggerire al Teatro alla Scala di affidare a Fiume l’ideazione di scene, costumi e sipari per la Vita breve di De Falla, in sostituzione di Salvador Dalì. Memorabile è la sua Medea scaligera interpretata da Maria Callas e diretta da Leonard Bernstein, come pure la sua rivoluzionaria Aida del Covent Garden di Londra, con colori cupi e apocalittici che incupivano la stereotipa immagine di un Egitto solare…

ENRICO CRISPOLTI

Sacralità e sacro nella pittura di Fiume
da Fiume in Vaticano
Edizioni San Paolo, Milano, 1998

Non tutti i dipinti di Salvatore Fiume che figurano attualmente nella collezione del Museo Vaticano d’Arte Moderna – pur se prescelti da un’apposita commissione di questo, donati in connessione con la committenza da parte di Paolo VI di una Crocifissione destinata appunto a tale collezione – risultano in realtà di soggetto “sacro”: anzi alcuni sono invece di carattere esplicitamente “profano”. D’altra parte non tutte, né le maggiori, pitture di tematica “sacra” realizzate da Fiume nel tempo figurano in tale lotto di sue opere nella collezione vaticana, pur se recenti come quel crocifisso triumphans del 1986, intitolato appunto Christus vincit; o, per fare un altro esempio, la cospicua coeva Deposizione; ambedue esposti nell’antologica di Fiume a Mosca nel 1991 e neppure la grande Ultima cena, del 1995. Non credo che ciò sia del tutto occasionale, quanto invece risponda se mai occasionalmente a un’effettiva condizione dell’immaginario dell’artista siciliano. […] Giganteggiante monumentalità arcaico-metafisica e sensualità esplicata attraverso l’intrisione del richiamo iconico entro la qualità stessa di una dimensione pittorica materiosa, spatolata, goduta in tutta la sua fisicità: paradossalmente ambedue queste componenti dell’immaginazione di Fiume sono attestate nel lotto di sue opere prescelte per la raccolta vaticana. Rispondendo più dunque a un’intenzione di documentare il suo lavoro nella naturalezza del proprio fluire immaginativo che non alla parzialità (che non sarebbe stata comunque motivata) di ritagliare in tale lavoro soltanto esiti appunto di attinenza “sacra”. E tuttavia ciò in ragione del fatto che questi affiorano entro tale naturale, e direi felice, sensualmente soddisfatto, fluire immaginativo, senza nettamente isolarvisi, né come occasione. […]

ENZO FABIANI

Trionfo di sguardi e colori
da Le Arti, supplemento al n.12
Milano, 1968 

Da dove arrivano mai queste anime zazzerute? Salvatore Fiume mi raccontò di aver studiato i beats per oltre due anni: a Vienna, Amsterdam, Parigi, Londra; poi sulle coste della Spagna e della Jugoslavia, ed infine in Israele. Per oltre due anni aveva girato il mondo alla ricerca degli elementi con i quali comporre quella “grande festa” che aveva sognato fin da giovane. E la “grande festa” era lì davanti a noi… […] I beats, Fiume li incontrò, per la verità, intorno al 1944 quando illustrò il Satiricon di Petronio Arbitro con disegni strabilianti per nitidezza, invenzione, fantasia. ( Sembra quasi incredibile che un giovane di appena vent’anni fosse così abile e perfetto). Erano certo beats ante litteram, forse più estrosi e liberi di oggi; certo non posavano, non protestavano, non pensavano nemmeno lontanamente di essere alla ricerca di Dio (come afferma, da squisito bevitore, quel terremoto di Jack Kerouak), né se la prendevano con i governi (come fa quello spara fucile di Allen Ginsberg).  […] “Io non ho voluto affatto”, mi diceva Fiume, “ documentare un fenomeno; ma ho cercato semplicemente di far diventare fatto d’arte uno spettacolo che sta svolgendosi nel mio tempo. È stato quindi per me un sentire e un approfondire vitalmente un problema nel suo aspetto dinamico. Ma è giusto dire problema? Forse sì, in quanto ogni uomo, sia esso cardinale o beat, è sempre un problema, almeno da un punto di vista… visivo. Dicevo prima che io cercavo un motivo che mi riportasse in qualche modo alle rappresentazioni pittoriche del Tre e Quattrocento, a quando cioè venivano raffigurati sui muri re e principotti con i loro giullari, le loro dame, i loro cani… Ebbene, ci sono arrivato: i miei principotti hanno la chitarra al posto dello scettro; le dame invece dei manti tempestati di gemme hanno la minigonna. Ma è lo stesso spettacolo, lo stesso furioso pellegrinaggio, anche se sono cambiati gli abiti e gli attori. È lo stesso “ trionfo della morte “ ? Non lo so, non sta a me scoprire ragioni e significati filosofici nello spettacolo che mi ha colpito o suggestionato; io ho cercato soltanto di esprimerlo pittoricamente, dopo averlo sentito palpitare nelle mie mani”. 

GIOVANNI FACCENDA

da La modernità di una pittura che risale alla maestà dell’antico Salvatore Fiume
Mito e classicità alle soglie della Metafisica
Liberamente People Art Production, Roma, 2008

…Dovendo indicare l’urgenza invero determinante all’origine della florida creatività di Fiume, non esiteremmo a indicare quel suo essere, sentirsi e manifestarsi pictor classicus già in alcuni eccellenti dipinti portati a termine sul finire degli anni Quaranta, emblematici per qualità di pittura, rigore prospettico, aura solenne, ordine monumentale. Una classicità che non rappresenta soltanto l’aspetto più limpido della sua vocazione, ma è al tempo stesso sorgente culturale, sollecitazione filosofica. Quanto di razionale appartiene alla vertiginosa altezza estetica di un Quattrocento, che riecheggia in lui attraverso i capolavori di Paolo Uccello e, soprattutto, Piero della Francesca, feconda un’utopia architettonica concretizzata in un gruppo di tele di eccezionale efficacia, nelle quali è possibile osservare un’ideale, esclusiva sintesi tra pittura, scultura e architettura… 

SALVATORE FIUME

Preziosa premessa alla veridica storia di Francisco Queyo
da Francisco Queyo – Salvatore Fiume, Hispanidad
Edizioni Bora, Bologna, 1993

Francisco Queyo, conosciuto come pittore spagnolo, non è mai esistito fisicamente, ma i suoi quadri da me dipinti, figurarono in cinque o sei esposizioni riscuotendo uno strepitoso successo di pubblico e di critica. Il nome di Francisco Queyo, dichiarato nei suoi cataloghi come quello di uno zingaro, non figurava in nessun ufficio anagrafico della terra.
…A Milano [dopo la guerra ndr] feci il giro di molte gallerie mostrando i miei quadri e i miei disegni senza ottenere un minimo di attenzione… La casa che avevo trovato per stare vicino alla grande città era a Canzo, in provincia di Como. Il denaro per l’affitto me lo aveva prestato Franco Ottina, un lombardo indimenticabile. Lassù tra le montagne, nascosto in una vecchia filanda disastrata, presa in affitto per pochi soldi, inventai un pittore. Gli diedi una storia, gli dipinsi i quadri e lo battezzai Francisco Queyo – pittore spagnolo.
…Nel 1946 io non ero ancora stato in Spagna, ma ne conoscevo ogni anfratto attraverso uno straordinario libro scritto da Davillier e illustrato da Doré nell’Ottocento quando i due avevano compiuto un viaggio per tutta la Spagna. Gli usi e i costumi, dall’Ottocento al 1946, erano probabilmente cambiati nelle grandi città, mentre sicuramente erano rimasti in tutto il resto della Spagna come al tempo del viaggio di Davillier perché troppo assomigliavano a quelli siciliani. Probabilmente qualche goccia di sangue spagnolo doveva essersi mescolata con quello siciliano in tempi molto lontani, visto che, nel mio, bollivano la voglia di affrontar tori nelle corride e di far vita randagia come gli zingari dei quali i disegni di Doré erano ricchissimi…
Dall’osservazione dei disegni di Doré ero passato a quella della pittura di Goya, di Velázquez e a quella più comunemente conosciuta del Seicento caravaggesco diffusissimo anche in Italia nelle chiese. Dal Caravaggio avevo tratto più di una lezione negli anni giovanili quando, come capita ad ogni altro che si affacci alla pratica dell’arte, viene la passione del chiaroscuro e del balenio delle luci a sorpresa come l’arrivo dei lampi in un temporale…
Tutto ciò che io dovevo sapere nel 1946 per riuscire a far nascere in provetta un pittore che potesse entusiasmare un pubblico vastissimo ed incuriosire i critici, non veniva soltanto per le vie culturali donde facevo arrivare lo stile di Queyo, ma anche dalla presenza di una abilità manuale che non circolava da molto tempo nelle tele dei pittori. L’invenzione, come si vede, non era dovuta a facile improvvisazione, pur tuttavia non sarebbe bastata da sola ad attirare l’attenzione del pubblico e dei critici. Occorreva che Queyo avesse una storia, un “curriculum”. A questo scopo dovetti passare dai pennelli alla penna… Intinsi, infatti, la penna nella mia vita e in quella di uno zingaro incontrato subito dopo la guerra mentre dava spettacoli in piazza, in un paesino piemontese dove ero sfollato, nei pressi di Ivrea… A quel signore mi accomunava la vita randagia che mi portavo alle spalle. Di personaggi come lui, illusionisti, giocatori delle tre carte, finti zoppi, accattoni di professione, ex domatori da circo, ne avevo conosciuti parecchi a Milano, frequentando i “barboni” nel 1936. Perciò il nostro incontro fu come quello di due colleghi o, meglio ancora, come di coloro che riconoscono subito d’essere tutti e due “del ramo”… Lo invitai a casa mia per disegnarlo con la casacca e con tutto il resto degli indumenti copiati da quelli del grande Grock [pseudonimo di Charles Adrien Wettach (1880-1959) famoso clown svizzero, ndr] del quale egli era uno straordinario imitatore. In quella occasione mi raccontò la storia della sua vita dalla quale estrapolai una parte che collocai in quella di Francisco Queyo. Mi raccontò che nel periodo della Repubblica di Salò non aveva avuto vita facile: veniva bastonato dai fascisti quando andava a dare spettacoli nelle loro zone perché sospettato spia dei partigiani, e bastonate prendeva dai partigiani nelle loro zone perché sospettato spia dei fascisti. Stufo di prendere botte, era andato ad impiegarsi in una fabbrica del biellese dove era molto apprezzato perché riusciva a riparare impianti elettrici, impianti idraulici, macchine, biciclette e quanto altro si sfasciava in fabbrica e in casa del proprietario.
…Diedi a Francisco Queyo i natali sotto le mura di Avila, dentro un carrozzone di zingari. Gli feci girare la Spagna per circa trent’anni durante i quali, nelle lunghe soste, gli feci coltivare la pratica della pittura, gli feci raccontare in prima persona d’essere entrato nei musei e nelle chiese, ed avere alternato l’arte del pittore con quella di saltimbanco che volava per i trapezi e correva sulle corde tese tra una casa e l’altra nei paesi dove andava a dare spettacoli. Ma, scoppiata la guerra civile in Spagna, veniva bastonato dai governativi quando andava nei loro territori perché sospettato spia dei franchisti e da questi perché sospettato spia dei governativi. Stufo di prendere botte da destra e da sinistra, presa la via dei Pirenei, se ne era andato in Francia dove i “fuorusciti” venivano ricoverati e sfamati. Ora, a guerre terminate, viveva a Parigi da dove arrivavano i suoi quadri in Italia. …Tuttavia ciò non bastava per ottenere che quei quadri avessero un successo di vendita. Bisognava organizzare le mostre senza rivelare l’indirizzo dell’autore. Alla persona che io scelsi per portare i quadri nelle gallerie riuscì facile tener segreto l’indirizzo del pittore dimostrando che, se altri l’avessero conosciuto, egli avrebbe rischiato di crearsi dei concorrenti. A scaricare i quadri nelle gallerie ero io, che in quelle occasioni figuravo essere il fattorino del mio amico. E quando i galleristi mi vedevano maneggiare i dipinti con troppa disinvoltura, mi rimproveravano e mi davano della bestia gridando che dovevo stare più attento. La prima mostra “Queyo” la tenni in via Manzoni a Milano nella galleria Gussoni [nel 1948 ndr]. Confusi col pubblico, nel momento della inaugurazione, c’eravamo io e mia moglie trepidanti e commossi dall’entusiasmo che vedevamo crescere nei visi della gente. Generalmente le mostre duravano quindici giorni e un buon numero di quadri, alla fine, rimaneva appeso alle pareti. Dopo cinque giorni dalla inaugurazione, la Galleria Gussoni era con le pareti vuote. Tutti i quadri di Queyo erano stati venduti. Il successo era arrivato anche per via della festa che allo spagnolo tributavano non solo i più importanti quotidiani, ma anche i giornali di provincia. In pochissimo tempo Queyo aveva conquistato il mercato. Richiedevano sue mostre parecchie gallerie della penisola e non pochi desideravano che egli dipingesse i loro ritratti. Fino a quando il successo veniva decretato al pittore spagnolo e cioè ad uno straniero, i colleghi italiani non avevano nulla da dire, quando però si seppe che i quadri di quel pittore li avevo dipinti io, l’invidia si fece strada e suggerì a galleristi e colleghi molte congetture. Furono avanzate accuse di truffa, di falso, di burla, interessando perfino la magistratura che non poté prendere in considerazione la faccenda senza una precisa denuncia.
…Quando [negli anni ’60 ndr] fu celebrato il processo formale contro Queyo nelle sale del Circolo della Stampa a Milano, promosso da me, da Dino Buzzati e da altri amici, alla domanda del Presidente cosa avessi da dire in mia discolpa risposi: “io non ho fatto i falsi di un pittore esistente ma i quadri autentici di un pittore inesistente”. Centottanta opere compongono l’intera produzione di Francisco Queyo, non una in più. Dopo quella stagione fortunata, io non riuscii a dipingere un solo quadro con lo stesso stile e col piglio che avevo dato a Queyo benché più volte mi fosse stato richiesto. Alla base di quella operazione… vi era stata la povertà dalla quale quei centottanta quadri mi avevano tirato fuori. Alla prima mostra col mio vero nome accorsero in molti che, senza essere stati colpiti dalla vicenda di Queyo, probabilmente non sarebbero venuti. Il critico Leonardo Borgese, al quale rivelammo la verità Dino Buzzati ed io, scrisse sul Corriere della Sera un pezzo bellissimo in occasione della mia prima esposizione, pur rammaricandosi di non aver intuito prima che dietro alla figura di Francisco Queyo ci stavo io che ne dipingevo le opere. Io non ho un quadro di quel pittore e me ne duole molto perché gli sono rimasto affezionato e perché, come se non c’entrassi affatto con la sua opera, lo ritengo un artista straordinario. Il mio esordio col mio vero nome avveniva con i quadri nei quali iniziavo la serie delle “Isole di statue” e delle “Città di statue” – delle quali registravo una sola vendita: quella per me storica fatta al Museo d’Arte Moderna di New York nella persona del direttore Alfred H. Barr venuto a visitare la mia mostra [nel 1949 ndr] mentre era di passaggio a Milano.

SALVATORE FIUME

da Al largo di Nantucket
“Il fiume”, edizione unica fuori commercio
Stampata in 1000 copie, 1956

Un mio dipinto di quarantotto metri di base per tre metri di altezza è finito l’altro giorno in fondo al mare, al largo dell’isola di Nantucket su un fondale profondo settanta metri. Ora mi sono adattato a immaginarlo fra i pesci, visitato da centinaia di pesci-lanterna che vanno a guardarselo pezzetto per pezzetto, come noi del mestiere facciamo coi quadri che vediamo per la prima volta. Non potevo rassegnarmi all’idea che il mio lavoro di un anno fosse condannato alla decomposizione nel buio e nel silenzio del fondo marino. Pareva inaffondabile, tanto era grande nel mio studio, disteso comodo sulle pareti come un gigante sdraiato sulla spiaggia… 

SALVATORE FIUME

Quando incontrai Bruno Buitoni che mi chiamò a Perugia sembravano finiti i tempi in cui alle spalle dei pittori poveri arrivavano, come inviati da Dio, i mecenati che si avvicinavano dicendo “Venga a casa mia e dipinga per me dieci quadri di tanti metri per tanti metri”. Invece nel 1949 ce n’era ancora uno. Era venuto a Milano in occasione della Fiera. Io ero seduto e disorientato dentro una galleria d’arte dove tenevo la prima esposizione dei miei quadri. Girandomi verso sinistra e alzando gli occhi vidi quel signore alto, sulla cinquantina, molto elegante, che teneva in mano un biglietto da visita. Guardandolo dal basso in alto, mi vidi porgere quel biglietto e sorridere. Io lo presi come un mendicante prende l’elemosina e, senza guardare cosa ci fosse scritto, lo misi in tasca educatamente quasi fosse stato un atto irrispettoso controllare l’obolo ricevuto. “Può venire da me a dipingere una decina di quadri grandi?” mi disse. “Dove?” chiesi io. “A Perugia, nella mia fabbrica”. “Perchè, lei ha una fabbrica a Perugia?”. “Sì” mi disse. “Va bene” risposi io “Mi dia il suo indirizzo”. Andai a prendere la penna nel retrobottega e scrissi il tutto in una cartelletta da disegno. Quando ebbi terminato, quel signore mi fece restare a bocca aperta, dicendomi: “Volevo evitarle la fatica di scriversi il mio indirizzo”. “E come avrei fatto a sapere chi è lei e dove abita?” domandai sorpreso. “Leggendo il mio biglietto da visita” mi rispose. E mi salutò andandosene con un sorriso amichevole e paterno.

SALVATORE FIUME

Ho dipinto i miracoli di San Rocco dentro la cupola di una chiesetta dedicata a quel Santo nel piccolo paese della Calabria chiamato Fiumefreddo Bruzio. Nessuno mi ha chiesto, né ordinato quel lavoro. Io stesso ho pregato le autorità di lasciarmelo eseguire perché fin dal 1959 desideravo decorare una cupola come Goya aveva fatto a Madrid nella cappella di San Antonio de la Florida. La potenza con cui Goya aveva rotto gli schemi tradizionali della rappresentazione di fatti religiosi mi aveva sconvolto e affascinato. Nel 1959, in occasione di un mio viaggio in Spagna, con negli occhi ancora tutta la pittura del Rinascimento italiano, vedevo per la prima volta nella cupola goyesca un nuovo modo di rappresentare gli avvenimenti d’ordine soprannaturale in mezzo alle miserie terrene. Goya, pittore poco religioso, si era preoccupato di dare maggior risalto al dolore umano e allo smarrimento degli umili piuttosto che al privilegio del Santo di poter operare miracoli e dispensare guarigioni. Non si trattava certo di una polemica sul valore che la Chiesa annette ai Santi, ma semplicemente di un modo nuovo, alquanto dimesso rispetto a quello rinascimentale, di rappresentare gli interventi soprannaturali sulla umanità sofferente, spesso incredula e perfino volgare. Siffatte rappresentazioni all’interno di una chiesa possono dar luogo ad equivoci: possono apparire perfino delle profanazioni del luogo sacro. Ma a ristabilire l’equilibro interviene, come nel caso della cupola di Madrid, la bellezza della pittura di Goya che è anch’essa un miracolo, secondo me, di natura non meno divina di quella dei miracoli del Santo della Florida. Un vuoto semisferico posto in alto ha il potere di attirare non soltanto lo sguardo ma anche lo spirito quando si trovi all’interno di un luogo sacro. Chi volge gli occhi verso il cielo, quasi sempre, abbandona per un istante le sue cure terrene. Il pittore del nostro tempo che si avventuri in una esperienza come quella di Fiumefreddo non conosce le difficoltà del dipingere su di una superficie concava che si direbbe rotante per la infinità di scorci che vengono a crearsi ad ogni spostamento del punto di vista. Naturalmente lassù il pittore deve far sì che l’intera composizione sia leggibile, dal basso, con una sola occhiata al massimo con due. Ho dipinto la cupola di San Rocco, santo protettore degli appestati, proprio nei giorni in cui a Seveso una nube tossica, sprigionata da una fabbrica di non so quali prodotti venefici, invadeva una gran parte della Brianza ammalando la gente del luogo e perfino la terra e le piante. Forse non sarei riuscito a rendere tanto drammatico il racconto della peste, né così efficace lo slancio di San Rocco nel cacciare la morte se in quei giorni non fossi stato turbato dalla tragedia di Seveso, paese vicino a Canzo dove io ho la mia casa, i miei familiari e il mio laboratorio. Credo che lo stato di tensione in cui ci trovammo tutti nell’estate del 1976 contribuì a farmi cominciare e finire, quasi in trance, l’intera decorazione in solo dodici giorni. I temi della decorazione sono, appunto, la peste e i miracoli di San Rocco. La composizione illustra quattro aspetti della vicenda vissuta dal Santo in Italia quando, proveniente dalla Francia, in pellegrinaggio per Roma, trovò quel terribile flagello. Nel primo è rappresentato l’incontro di San Rocco con la peste. Nel secondo: la cacciata della morte. Nel terzo: la fede che si diffonde tra le popolazioni colpite dal morbo; e nel quarto: il ritorno alla vita simboleggiato dalla evocazione biblica di Adamo ed Eva sotto un albero che è fiorito là dove era rinsecchito e bruciato. 

SALVATORE FIUME

da Le sculture 
Leonardo Arte, 1994

… [attraverso queste sculture] Ho raccontato ciò che avviene quando si eseguono degli scavi, quando, cioè, gli archeologi trovano statue, teste, gambe, braccia di statue di varie epoche, anche a poca distanza le une dalle altre e, portandole alla luce, incaricano gli scavatori di riporle a fianco dei fossi. Proprio in quelle occasioni, ho visto riporre senza alcuna intenzionalità, torsi femminili vicino alla bocca ora di un satiro, ora di un imperatore, ed intrecciare, come atti d’amore, tronchi di statue di uomini e di donne che, tra l’altro, si circondavano di vapori, perché, uscendo bagnati da sotto terra, erano investiti dal sole. Accanto a questi racconti ho voluto ricreare, con le mie sculture, ciò che avviene quando quegli scavi finiscono nei musei. Ho visto che gli storici, ricostruendo le statue delle quali hanno pochi pezzi, tentano di mostrare come probabilmente furono quelle sculture quando erano tutte intere. Questi drammatici spettacoli mi hanno ispirato per comporre delle sculture con frammenti staccati gli uni dagli altri, ma coordinati in modo da offrire al visitatore la traccia per completarle con la sua immaginazione… 

ENZO GUALAZZI

da Un universo personale
Catalogo della Mostra al Palazzo del Turismo
Palermo, 1972

…Nel 1946, Alfred H. Barr Jr. pubblicava a New York il suo fondamentale volume Picasso, Fifty Years of His Art. Qualche mese più tardi egli era in Europa a osservarvi da vicino la situazione dell’arte quale andava emergendo dal caos della guerra. Come nella sua precedente visita del 1935, egli aveva in programma alcuni acquisti per il MoMA di New York, di cui era direttore delle collezioni. Proprio a questa sua ricognizione postbellica si deve se una delle prime Isole [Città di statue] di Fiume poté passare allora a quel museo. Sarebbe troppo facile ricostruire le cause di quel precoce riconoscimento e potrebbe sembrare superfluo ora che Fiume figura fra i maestri della pittura moderna italiana. Il pittore siciliano era allora, tra i giovani artisti in ascesa, il solo che operasse visibilmente nell’area di un’avanguardia tipicamente italiana, l’area della pittura metafisica. 

FLAMINIO GUALDONI

da Fiume. Anticamente moderno, modernamente antico
Catalogo della mostra Salvatore Fiume, un anticonformista del Novecento
Spazio Oberdan, Milano, 2011 

…Dunque, per vie del tutto autonome Fiume propone, (in un dibattito artistico che va insterilendosi in querelles opache tra figurare e astrarre), un altro modo di essere, una maniera che sia, come volevano l’Aretino e Vasari, “anticamente moderna, et modernamente antica”. E che può essere, intuisce il geniale Ponti, l’autentica via italiana in seno alla modernità, quella variamente auspicata e tentata entre deux- guerres ma solo a tratti intravista, e soprattutto solo occasionalmente compresa: quella “diversa modernità” che, qualche decennio dopo, un Aldo Rossi potrà indicare nel costruzionismo di Sironi, e le cui ragioni necessitanti Fiume pare dispiegare con ormai maturata e non problematica sicurezza…. Ben prima che il costume pop attui le stesse pratiche dal punto di vista del cinismo e della manipolazione dell’immagine, Fiume tenta la via di un’assunzione né epigonale né nostalgica, ma saporosamente amorevole, tale da farne, come ben s’avvede Savinio, uno dei rari autentici eredi della ripresa classica dei decenni precedenti. Soccorrono a tale sua scelta alcune facoltà caratteriali, e vocazioni, che s’impongono all’artista con la forza delle necessità. Quando Raffaele Carrieri ne sintetizza il profilo come “aggrovigliato, fulminante, scherzoso, acrobatico, sfaccettato”, quando dice della sua pittura come di “flusso potente e improvviso” che giunge a “una espressione di estrema vitalità”, sta avvertendo che Fiume non appartiene alla stirpe, in quei decenni sempre più proliferante, degli artisti concettosi in balia di teorie e ideologie, e men che meno di coloro che declinano la sana nozione di rigore come una sorta di savonarolismo dell’estetico… 

GIANCARLO LACCHIN

Bellezza e metamorfosi della memoria: la poetica delle Ipotesi di Fiume
Salvatore Fiume: identità di un protagonista a dieci anni dalla scomparsa
Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Arezzo, 2007-2008

…È una tensione dialettica quella che anima la vita del capolavoro, è una “traiettoria eccentrica” che mai volge alla ricomposizione dei contrasti, ma li lascia vivere in un legame superiore e in una diversa e più alta destinazione. «Mediante un’unità superiore – afferma Novalis – l’artista concentra diversi mestieri e questi stessi per mezzo di una tale superiore concentrazione acquisiscono un superiore significato». Quando il pittore, vittorioso e tenace, agisce sulle masse, sui corpi, sui colori, è allora che il legame con l’antico si fa presente ed efficace e che si comprende come la novità dell’antico sia l’antichità del nuovo; è allora che si apprende la continuità ininterrotta del tempo. Proprio questo è l’orizzonte su cui si muove la pittura metafisica di Salvatore Fiume, nella quale il nuovo nasce sempre sulla metamorfosi vivente dell’antico e l’artista, riprendendo le sue parole, «può correre al contrario: correre sulla scia del tempo che è passato». Se, come afferma anche Benjamin, «l’antichità esiste solo dove uno spirito creativo la individua», allora la poetica fiumana delle ipotesi rappresenta il paradigma di un sapiente dialogo fra passato e presente che si articola su una vivace e persistente dialettica fra intuizione e riflessione, fra accoglimento-percezione del senso e fondazione di nuovi miti per il presente. Arte romantica allora? “Pittura della pittura”, per parafrasare una celebre definizione che Friedrich Schlegel riconduce alla poesia? Certo, il romanticismo è romantizzazione, è movimento progressivo continuo di definizione delle forme e del senso, ma la riflessione, in Fiume, è sempre guidata dall’intuizione, come studio profondo e vivo dell’antico e individuazione di una nuova antichità; essa è forma formata e forma formante del tempo dell’arte e della storia. La pittura di Fiume rappresenta così il senso eccezionale di una modernità complessa, articolata, molteplice, profonda. Pittura indubbiamente “educata”, votata a un culto genuino delle forme, ma al contempo gravida di potenza autenticamente mitopoietica. L’inserzione del classico non è così pura citazione ornamentale, puro esercizio di maniera, ma composizione di materiale vivente nell’ordito e nel tessuto della storia dell’anima. È così che prende forma il ciclo delle Ipotesi (1984 – 1992), testimonianza di una nuova e sconcertante contemporaneità dei capolavori. La coscienza dell’artista diviene nell’ipotesi coscienza del tempo vivente. L’ipotesi è così esempio di una possibilità, forse la più alta: la possibilità del dialogo nel tempo fra i tempi, nello spazio fra gli spazi, la scoperta stupefacente dell’eterna simultaneità dell’opera d’arte. «Non è una novità – dice Fiume – che una manciata di millenni corrispondano a pochi secondi rispetto alla immensità incalcolabile del tempo». Ecco allora che l’eterno diviene il nuovo, e l’ipotesi la forma moderna di una nuova mitologia. Se, come riconosce il pittore, «ogni opera è la materializzazione di un’ipotesi», allora la stessa ipotesi è impronta di un’opera d’arte totale, traccia indelebile di un nuovo linguaggio dell’origine, nel quale trova fondamento l’essenza del grande stile, del “classico”… 

PAOLO LEVI

da Una vita come disegno
Catalogo dei dipinti e dei disegni di Salvatore Fiume, 1945 – 1985
Giorgio Mondadori & Associati, Milano, 1985 

…Il corpo dei suoi disegni, straordinaria rivelazione della sua genialità creativa, pone la figura di Salvatore Fiume al livello delle massime personalità artistiche europee di questo secolo… Quando Salvatore Fiume si ispira alle geometrie di Paolo Uccello, agli esercizi grafico-cubisti di Picasso, a certe tematiche di Goya, ai giochi surreali di de Chirico e di Savinio, il suo segno non è mai imitativo. Sembra piuttosto uscire volentieri dai suoi territori, dai temi tradizionali, quali le città di statue, le modelle di colore, le isole, per stringere un dialogo alla pari con questi maestri, compagni di viaggio spirituali, come fosse una sorta di competizione, di verifica, per dimostrare la propria autonomia, per difendere la propria identità… 

DOMENICO MONTALTO

da Salvatore Fiume, il disegno come vocazione
Salvatore Fiume.  Cento disegni
Téchne Editore, 2001

Un’accurata analisi, sia cronologica che tematica e stilistica, dell’opera grafica di Salvatore Fiume ci consente di affermare fuor d’ogni dubbio che egli è stato uno dei grandi disegnatori del Novecento. La costante, singolare freschezza della sua vena fantastica; la geniale, multiforme ricchezza dei temi e dei soggetti; l’esatta pertinenza delle invenzioni e delle soluzioni tecniche; e – a fondamento di tutto ciò – la densità culturale e umana dell’esperienza artistica di Fiume autorizzano, pur a pochi anni dalla scomparsa del maestro di Comiso, ad assegnarlo alla ristretta pleiade dei sommi continuatori contemporanei della tradizione storica del disegno europeo, accanto a Picasso, Dalì, Moore, Marino e soprattutto accanto a Max Ernst, de Chirico e Savinio… 

LISA PONTI

“Domus
 Ottobre 1954

…Quando Fiume vi parla di un’isola di statue, statue gigantesche abitabili, che vorrebbe gli facessero costruire, non bisogna stupirsi o, sorridendo, crederla fantastica, perché se non gliela fanno fare Fiume se la fa da solo. È il mecenate di se stesso, si dissangua per Fiume e le sue idee, quello che gli preme è che le cose siano fatte, e ha fretta di farle. La sua pittura in un certo senso è una astrazione, più preziosa, più filtrata, ma le dimensioni della sua fantasia sono quelle del costruire. Fiume dipinge quello che costruirebbe. Nel suo mondo ci si cammina; le isole, le teste, le cupole si assomigliano. E l’analogia ha origine dalle storie fantastiche, regali e comiche, del suo paese. È un Gaudì siciliano… 

ELENA PONTIGGIA

da La città di statue. La stagione metafisica di Fiume (1946 – 1955)
Catalogo della Mostra Salvatore Fiume, un anticonformista del Novecento, Spazio Oberdan, Milano 2011

Salvatore Fiume è un artista che tutti conoscono e pochi sanno chi sia. Gli appassionati d’arte ricordano bene il suo nome, ma l’immagine che hanno della sua ricerca è, spesso, parziale: limitata a un’epoca, se non a un soggetto, della sua produzione. Sfugge, in genere, la complessità del suo lavoro, che non si concentra solo sulla pittura, ma si estende alla scultura, all’architettura, alla scenografia. E sfugge, in particolare, quell’intensa stagione della sua prima maturità in cui Fiume crea un mondo immobile di statue e totem: una stagione, corrispondente al primo decennio del dopoguerra, che è stata chiamata (e che anche qui chiameremo per comodità, ma vedremo meglio in quale senso l’aggettivo vada inteso) metafisica. Come mai un periodo così carico di suggestione, e non privo di riconoscimenti per l’artista (il consenso di critici-poeti come Carrieri e Buzzati; la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1950, grazie all’appoggio di Savinio; il sodalizio con Gio Ponti; l’attività di scenografo alla Scala di Milano; l’acquisto della Città di statue da parte del MoMA di New York, allora diretto dal leggendario Alfred Barr) è stato trascurato, se non dimenticato, tanto che nella cognizione anche di studiosi e specialisti la pittura di Fiume si identifica con un mondo sensuale e morbido di odalische e ginecei, non con una città enigmatica di statue e marmo? Le ragioni possono essere molte, anche a non voler invocare l’arbitrarietà di ogni fortuna critica (habent sua fata picturae…) o l’incidenza di circostanze contingenti. Ce n’è una, però, che non si può tralasciare e che qui vorremmo indicare almeno sommariamente. Il panorama dell’arte italiana, nei primi due decenni del dopoguerra, è stato un campo di battaglia fra due tendenze: il realismo più o meno espressionista e l’astrattismo geometrico o informale. La storiografia ha dato conto di quei due schieramenti, sottovalutando (e spesso dimenticando del tutto) le ricerche che non ne facevano parte. Eppure, benché fossero in minoranza numerica, quelle ricerche esistevano, a cominciare da una figurazione per così dire mentale, lontana dal realismo, dal naturalismo e dall’espressionismo, e legata invece a una lezione metafisica intrisa di memorie classiche (i cui padri, tra l’altro, in quei decenni erano in gran parte ancora viventi e operanti: per fare solo qualche esempio, Donghi scompare nel 1963, Campigli e Usellini nel 1971, de Chirico stesso nel 1978). A questo generale pregiudizio storiografico – e il lettore ci scuserà se l’abbiamo riassunto un po’ alla buona – non si sottrae la stagione appunto metafisica di Fiume. Con l’aggravante che, nel suo caso, non si può comprendere pienamente il vitalismo e la sensualità siciliana, anzi araba e medio-orientale, della sua pittura, se non si considera quel raggelamento marmoreo di forme e figure che ne costituisce insieme l’antitesi e la premessa. Tutta la pittura di Fiume si muove tra due polarità contrapposte: da un lato una fisicità prorompente e incontenibile, dall’altro una sospensione del tempo e della vita. Non si possono capire a fondo le sue visioni di odalische e di geishe giapponesi, di tauromachie e di bestiari onirici, se non si riflette sull’origine di quel vitalismo: il presagio di un mondo immobile, di un popolo di figure che, per usare le parole di de Chirico, “hanno svestito l’orgasmo della vita” e che si dispongono sulla tela come i pezzi di una scacchiera. “Il poter spegnere ogni barlume di vita, di quella vita corrente e spiegabile, nelle figure dipinte, per rivestirle con quella solennità e quella immobilità, dall’aspetto sereno e inquietante, come d’immagini contenenti i segreti del sonno e della morte, è il privilegio della grande arte”, scriveva ancora de Chirico nel 1920, in un brano che Fiume probabilmente non conosceva, ma che avrebbe potuto sottoscrivere… 

PIERRE RESTANY

da La natura integrale di Salvatore Fiume
Fiume a Villa Medici
Arte Immagine Santerasmo International, Milano, 1992

…Pittore, scultore, incisore ma anche scrittore, saggista, scenografo Fiume è capace di abbordare un’infinità di settori espressivi con la spontaneità di un talento fuori serie. Tempo fa, quando la parola aveva ancora un senso, avrei detto di lui che era un puro umanista. Oggi vorrei piuttosto esaltare l’uomo in sé, come una specie rara e in via di estinzione. Un uomo mediterraneo nel più nobile senso della parola: un uomo che ha saputo portare il proprio rapporto natura-cultura al livello della più immediata equivalenza esistenziale. Un uomo per cui la cultura passa necessariamente attraverso un senso acutissimo della natura integrale, la natura dell’Io e dell’Altro, dell’essere e delle cose. È chiaro che una tale visione non possa essere altro che naturalmente universale… Il lettore potrà forse meravigliarsi di pensare che Salvatore Fiume e Pierre Restany hanno passato tutto un pomeriggio del 1992 a parlare del sesso della donna. Del sesso della donna e non del sesso degli angeli, davanti alle tele meravigliose del maestro! L’esperienza rimarrà incisa per sempre nella mia memoria. Tengo di Fiume un’impressione esaltante, quella di una civilissima lezione di verità nell’emozione e di bellezza nel gesto. Amare la donna non è la cosa più bella del mondo? Bisogna essere capaci però di tradurre la qualità unica di questo amore nella coerenza logica del linguaggio. E si tratta allora non solo di talento ma anche di morale. Se si prende la morale nel suo senso primario, cioè la filosofia dell’azione umana e non nella sua dialettica riduttiva del bene e del male, Salvatore Fiume si presenta come un vero e grande poeta dell’amore, nel cuore della più alta linea pittorica dell’Eros. Non esito a dirlo e sono ben felice di assumerne la testimonianza. Gli artisti che sanno abbinare la maestria tecnica con la ricchezza affettiva di una cultura planetaria sono rarissimi. Appartengono al bene comune dell’umanità, fanno parte del suo eterno patrimonio. 

VITTORIO SGARBI

da Fiume senza tempo
Fiume a Mosca
Augusto Agosta Tota Editore, Parma, 1991

…Fiume osserva Goya e Manet, riprende, rielabora e ricostruisce la pittura dei maestri moderni, e, ignorando tutto quanto non è ancora entrato in quella vera storia che è la nostra memoria, evitando quindi il dialogo con le avanguardie, gli artisti contemporanei, i ricercatori di strade nuove, dà la continua dimostrazione che la poesia come la grande pittura nega la storia, nega il tempo e sovverte l’ordine regolare delle cose, lo sviluppo cronologico degli eventi. La sua parabola pittorica traduce in immagini il pensiero di Borges. Ciò che precede non è necessariamente prima, e, per organizzare il giudizio, occorre essere al punto terminale di un percorso storico. Se noi osserviamo la pittura da Giotto agli Impressionisti ci rendiamo conto che non solo non c’è sviluppo, non solo non c’è crescita ma che potremmo idealmente organizzare un concorso, una gara fra artisti prendendoli da secoli diversi. Il primo non è il primo e neanche l’ultimo in un percorso ribaltato. In questa logica, il primo potrebbe essere Piero della Francesca, il secondo Caravaggio, il terzo Giotto, un pittore del Quattrocento, uno del Seicento e uno del Trecento, o qualunque altra combinazione possibile che ci consenta di stabilire primati senza dover seguire nessun ordine prestabilito. Questa astuzia della memoria contro l’organizzazione della storia, questi primati imprevedibili trovano una perfetta rappresentazione in quei dipinti nei quali Fiume mette insieme Raffaello, de Chirico, Henry Moore, facendoli convivere in un solo spazio perfettamente plausibile, e quasi normalizzando le diversità delle immagini e degli stili. C’è uno stile Fiume che, pur rispettando i caratteri di de Chirico e quelli di Raffaello, riesce a rendere plausibile la loro convivenza; quindi uno stile contro gli stili o contro l’appropriarsi che degli stili fa la storia. Un pittore che noi osserviamo non è del Seicento ma è del Novecento, non è del Trecento ma è del Novecento, non è del Cinquecento ma è del Novecento e sarà non dei primi secoli ma di tutti i secoli a venire. Fiume li raccoglie tutti nella rete della propria pittura e la riporta alla linea di partenza per la gara, li allinea annullando le differenze e preservandone le distinzioni, che sono quelle identità che noi abbiamo memorizzato e ci fanno riconoscere de Chirico, Raffaello, Velázquez, Manet, Giotto, ma che non ci impediscono di vederli tutti continuamente contemporanei. La scelta che ha fatto Fiume è quindi una dichiarazione, una esplicitazione del semplice meccanismo descritto all’inizio, per cui la poesia si nega alla moda, lascia al presente il corpo di chi la produce e si trasporta, si trasferisce in qualunque altro tempo. Attraverso le immagini Fiume ce ne dà dimostrazione, e quindi le Maje di Goya sono Maje di Fiume, sono Maje nostre, sono figure femminili di una ossessione che non ha limite né tempo, sono immagini contemporanee dell’eros, della passione, dell’amore; così come i versi che riguardano Silvia, Nerina o qualunque altra immagine poetica, non hanno niente a che fare con la figura reale che le ha determinate, perché diventano amori della nostra vita, amori della nostra personale storia… 

FRANCO SOLMI

Da Eros Triumphans
Disegni erotici di Salvatore Fiume
Società Italiana per le Edizioni d’Arte, Roma, 1988

…Per Salvatore Fiume l’allegoria, che egli pratica per grazia e dannazione di pittore, confessa soprattutto il bisogno del naturale, meta già fin troppo ambiziosa per le nostre povere metafisiche. Uomo concreto e sognante, credo che sceglierebbe a suo patrono Jean Jacques Rousseau, se una coscienza culturale levigata dal cinismo dei tempi appena consentisse opzioni di questo genere. Essendo artista, non ha bisogno di dar giustificazioni particolari a quel suo andar per immagini e per simboli nei territori della storia e della mitologia naturale. Tanta è la pluralità delle sue osservazioni che le opere sembran venir fuori dal taccuino d’un viaggiatore fortunato che si è trovato a frequentare città insepolte a tutti sconosciute e a giocare alla pari, fin da bambino, con satiri, ninfe e minotauri innamorati… 

ANTONIO TARZIA

da Fiume in Vaticano
Edizioni San Paolo
Milano, 1998

Il merito fu senz’altro di Papa Montini e molto si deve alla sensibilità artistica e alla lungimiranza di Mons. Pasquale Macchi, allora segretario particolare di Paolo VI, se questa splendida collezione di oli fu assemblata e in blocco poté varcare la soglia dei Musei Vaticani, destinata ai cultori d’arte e ai cristiani di ogni tempo che nell’arte sanno trovare una traccia di Dio, una via dell’assoluto. Domandai una volta a Fiume: “Maestro, nel dipingere una crocifissione o una Madonna, un Cristo giudice o un Bambino a Betlemme, non le è mai successo di sorprendersi a pregare?”. “Sì – mi rispose – ma non è una vera e propria preghiera: è una conversazione pacata, come parlare al telefono con un amico.  Non sento Dio sulla tela o nei colori, me lo ritrovo a fianco: una presenza discreta, che a volte suggerisce una soluzione pittorica e spesso tace, come chi sta a guardare e sorridere quando sbagli. Io penso che Dio sia un gigante che gioca a bocce con le stelle e i pianeti; la Terra è il suo boccino ma, quando si china sull’uomo, lo rende protagonista e questo minuscolo essere illuminato dalla sua attenzione diventa un santo, un eroe, un artista capace di inventare il bello”. L’arte di Salvatore Fiume non si è caratterizzata come un’arte religiosa impregnata di messaggi o protesa in una ricerca spirituale; per decenni il suo estro si è dilettato con i miti mediterranei, nelle rivisitazioni storiche di personaggi ed eventi; attraversato da una vena ironica ha folleggiato con i simboli, misurandosi con stili e stilemi di altri tempi e di altre culture. Le donne soprattutto hanno calamitato la sua attenzione e nel fascino dei loro colori puri e stregati egli ha vagabondato, inseguendole in ogni dove: negli harem, sui balconi d’oriente, nelle piazze andaluse, dietro ai ventagli giapponesi, sotto le palme e nei mercati di frutta della Polinesia. In questi ultimi dieci anni Fiume ha però scoperto il Vangelo, lo ha riletto e illustrato con ventiquattro oli e tanti, tanti bozzetti; poi, sollecitato dagli amici della San Paolo, ha messo mano alla Bibbia e nel 1995, anno della donna, ha licenziato il volume Le grandi donne della Bibbia, un nugolo di angeli suonatori dalle ali colorate e, quindi, I grandi uomini della Bibbia: patriarchi, re e profeti e ancora santi martiri, come le “santuzze” siciliane Agata, Lucia e Rosalia o santi monaci come Benedetto, Francesco d’Assisi e Padre Pio da Pietralcina. Quando nel sole di un mattino di giugno il Signore lo ha chiamato per mostrargli quanto sono più belli i colori visti nella Sua luce, lui stava lavorando a un trittico con angeli, Pietro e Paolo e un Cristo risorto e sorridente. L’ultima sua grande pala, destinata per testamento a Musei Vaticani, è stata la “Madonna del Giubileo”: a differenza della “Madonna d’Africa” – lo splendido olio che campeggia nella chiesa parrocchiale di Patti in Sicilia – nella quale la figura coronata come una regina, con il piccolo re in braccio, danza facendo vela con l’ampio vestito bianco arabescato d’oro, questa del Giubileo è ferma ma non statica, è la Madonna con la quale si ha un appuntamento: lei aspetta serena con una gran pace e una grande misericordia nella sguardo. Nel retro del quadro è scritto: “Una mamma per gli uomini del Duemila; una sorella e  un’amica; la donna più donna: Dio l’ha scelta per sé e lui non sbaglia, scegliamola anche noi per il prossimo millennio”.

JOSÈ GUILLERMO GARCIA VALDECASAS

da Fiume e i suoi amici spagnoli
Salvatore Fiume en el Real Collegio de Espana
Bologna, 1983

…Ci sono maniere molto diverse per visitare un altro paese. Il viaggiatore vuole arrivare. L’ospite vuole rimanere. Solo il turista vorrebbe già esserci stato e forse perché la sua macchina fotografica possa sfogarsi: delega ad essa il compito di fissare le cose così come io lascio che il mio cane capti a suo piacere le curiosità olfattive della strada. Ci liberiamo da questa umiliante condizione turistica se un amico ci attende nel paese per mostrarcene il vivere profondo. Quando il più grande poeta di questo mondo viaggiò attraverso l’altro, lo fece al fianco di un vecchio collega di nome Virgilio. Ebbene, Fiume ha visitato la Spagna guidato da tre suoi amici e colleghi: Velázquez, Picasso e soprattutto Goya. Così ha percorso a fondo tutto il paese senza il bisogno di uscire dal Museo del Prado. Potrà sembrare un viaggio impossibile a chi crede che la Spagna sia il confine del mare e porta con sé la sua macchina fotografica ansioso di folclore e geografia. Fiume, grazie a Dio, ha guardato la nostra cultura. Non cercava il paesaggio ma l’anima. Questa insolita memoria della mia terra non evoca infatti né scene né paesaggi spagnoli ma quadri e si compone così di quadri al quadrato, dipinti di dipinti. Il che, se si osserva attentamente, è proprio il contrario della copia. Il Museo del Prado è pieno di pazienti riproduttori di capolavori: sicuramente Fiume li avrà visti ed avrà riso non poco di questo assurdo artigianato, attento a ripetere l’oggetto inanimato dell’opera d’arte. Il copiatore crede d’imitare il pittore, mentre in realtà imita male quella macchina fotografica, della quale oggi ho deciso di parlar male. La stessa macchina fotografica che Fiume ha avuto la precauzione di lasciare a casa…

MARISA VOLPI ORLANDINI

Salvatore Fiume
dal Catalogo della Finanziaria Buitoni
Perugia, 1988

… Salvatore Fiume quando assunse il compito di istoriare queste vicende, si trovava di fronte ad una serie di problemi da risolvere, certamente non facili: l’anacronismo del suo rapporto obbligato con temi, iconografie e committente; la complessità dell’invenzione compositiva che richiedeva un’ampiezza epica di concezione e una grande perizia tecnica, infine il luogo intellettuale nel quale porsi per raggiungere uno stile significativo, in un panorama italiano che scintillava di ardori neofiti verso la cultura cosmopolita, filtrata vivacemente dopo i decenni più angusti del periodo fascista. Direi che ad ognuno di questi problemi il pittore seppe dare l’unica brillante risposta possibile: in stesure luminose e timbriche, di un olio che fà pensare piuttosto alla tempera o all’affresco per la grande leggerezza. Fiume coglie immagini e ritmi delle scene drammatiche e dei combattimenti con una sapiente naïvetéé, contrappunto ironico all’uso appassionato e virtuoso del linguaggio visivo della metafisica. Con l’immaginazione e la tecnica attente al grottesco e all’onirico delle “Battaglie di gladiatori” dechirichiani, o alle stilizzazioni arcaizzanti di Campigli e di altri artisti del Novecento, l’artista infatti, come un abile prestigiatore, fà scaturire di lì una folta messe di personaggi, di tagli compositivi complessi, di suggestioni poetiche. Ma soprattutto è l’indicazione di clima stilistico che gli fornisce la chiave per una personale evocazione di un repertorio più vasto, dove Paolo Uccello – che del resto aveva dipinto un avvenimento della storia umbra “La Battaglia di Sant’Egidio” -, Piero della Francesca, Giotto perfino, ma poi maschere primitive africane, stemmi araldici, arcaismi novecenteschi, sono usati con libertà ragionata e fantasia scatenata, con precisione mirabile o con ammiccante gioco teatrale, per realizzare una narrazione del tutto moderna ed aggiornata proprio nel suo anacronismo…