L’AVVENTURA QUEYO

1947 · 1948

A Milano, nel 1947, sembrava non esserci mercato per le opere di Fiume ispirate alla pittura del Quattrocento e all’arte metafisica di de Chirico, Savinio e Carrà. Evidentemente le sue Città di statue contenevano degli elementi di novità, non solo rispetto alla pittura ma anche rispetto a un ideale di scultura architettonica, in esse rappresentato, tutt’altro che facili da comprendere a prima vista. Allora Fiume, determinato ad affermarsi nel mondo dell’arte, decise di ricorrere ad un originale stratagemma. Inventò l’esistenza di un pittore gitano spagnolo, lo chiamò Francisco Queyo e dipinse un gruppo di opere ispirate alla tradizione e al folklore spagnoli nelle quali utilizzò tutta la sua abilità tecnica per realizzare dei dipinti più facilmente comprensibili, e li firmò F. Queyo. Poi li mostrò ai responsabili della Galleria Gussoni di Milano raccontando la storia totalmente inventata del pittore Francisco Queyo. Disse che era un suo amico rifugiato a Parigi per sfuggire al regime franchista il quale gli aveva chiesto di organizzargli una mostra in Italia. I dipinti furono accolti con entusiasmo e la mostra si rivelò un grande successo. Tutti i quadri vennero venduti molto rapidamente e un importante critico del tempo, Leonardo Borgese, scrisse che molti artisti italiani avrebbero potuto imparare qualcosa da quel maestro spagnolo. Ma Dino Buzzati, che oltre a essere un caro amico di Fiume, era anche pittore, riconobbe il suo tratto, e così Fiume rivelò di essere lui l’autore dei dipinti firmati F. Queyo. E questo fu l’inizio avventuroso della sua carriera di pittore.

TESTI CRITICI

SALVATORE FIUME

Preziosa premessa alla veridica storia di Francisco Queyo
da Francisco Queyo – Salvatore Fiume, Hispanidad
Edizioni Bora, Bologna, 1993

Francisco Queyo, conosciuto come pittore spagnolo, non è mai esistito fisicamente, ma i suoi quadri da me dipinti, figurarono in cinque o sei esposizioni riscuotendo uno strepitoso successo di pubblico e di critica. Il nome di Francisco Queyo, dichiarato nei suoi cataloghi come quello di uno zingaro, non figurava in nessun ufficio anagrafico della terra.
…A Milano [dopo la guerra ndr] feci il giro di molte gallerie mostrando i miei quadri e i miei disegni senza ottenere un minimo di attenzione… La casa che avevo trovato per stare vicino alla grande città era a Canzo, in provincia di Como. Il denaro per l’affitto me lo aveva prestato Franco Ottina, un lombardo indimenticabile. Lassù tra le montagne, nascosto in una vecchia filanda disastrata, presa in affitto per pochi soldi, inventai un pittore. Gli diedi una storia, gli dipinsi i quadri e lo battezzai Francisco Queyo – pittore spagnolo.
…Nel 1946 io non ero ancora stato in Spagna, ma ne conoscevo ogni anfratto attraverso uno straordinario libro scritto da Davillier e illustrato da Doré nell’Ottocento quando i due avevano compiuto un viaggio per tutta la Spagna. Gli usi e i costumi, dall’Ottocento al 1946, erano probabilmente cambiati nelle grandi città, mentre sicuramente erano rimasti in tutto il resto della Spagna come al tempo del viaggio di Davillier perché troppo assomigliavano a quelli siciliani.
Probabilmente qualche goccia di sangue spagnolo doveva essersi mescolata con quello siciliano in tempi molto lontani, visto che, nel mio, bollivano la voglia di affrontar tori nelle corride e di far vita randagia come gli zingari dei quali i disegni di Doré erano ricchissimi…
Dall’osservazione dei disegni di Doré ero passato a quella della pittura di Goya, di Velázquez e a quella più comunemente conosciuta del Seicento caravaggesco diffusissimo anche in Italia nelle chiese. Dal Caravaggio avevo tratto più di una lezione negli anni giovanili quando, come capita ad ogni altro che si affacci alla pratica dell’arte, viene la passione del chiaroscuro e del balenio delle luci a sorpresa come l’arrivo dei lampi in un temporale…
Tutto ciò che io dovevo sapere nel 1946 per riuscire a far nascere in provetta un pittore che potesse entusiasmare un pubblico vastissimo ed incuriosire i critici, non veniva soltanto per le vie culturali donde facevo arrivare lo stile di Queyo, ma anche dalla presenza di una abilità manuale che non circolava da molto tempo nelle tele dei pittori. L’invenzione, come si vede, non era dovuta a facile improvvisazione, pur tuttavia non sarebbe bastata da sola ad attirare l’attenzione del pubblico e dei critici. Occorreva che Queyo avesse una storia, un “curriculum”.
A questo scopo dovetti passare dai pennelli alla penna… Intinsi, infatti, la penna nella mia vita e in quella di uno zingaro incontrato subito dopo la guerra mentre dava spettacoli in piazza, in un paesino piemontese dove ero sfollato, nei pressi di Ivrea… A quel signore mi accomunava la vita randagia che mi portavo alle spalle. Di personaggi come lui, illusionisti, giocatori delle tre carte, finti zoppi, accattoni di professione, ex domatori da circo, ne avevo conosciuti parecchi a Milano, frequentando i “barboni” nel 1936. Perciò il nostro incontro fu come quello di due colleghi o, meglio ancora, come di coloro che riconoscono subito d’essere tutti e due “del ramo”… Lo invitai a casa mia per disegnarlo con la casacca e con tutto il resto degli indumenti copiati da quelli del grande Grock [pseudonimo di Charles Adrien Wettach (1880-1959) famoso clown svizzero, ndr] del quale egli era uno straordinario imitatore. In quella occasione mi raccontò la storia della sua vita dalla quale estrapolai una parte che collocai in quella di Francisco Queyo. Mi raccontò che nel periodo della Repubblica di Salò non aveva avuto vita facile: veniva bastonato dai fascisti quando andava a dare spettacoli nelle loro zone perché sospettato spia dei partigiani, e bastonate prendeva dai partigiani nelle loro zone perché sospettato spia dei fascisti. Stufo di prendere botte, era andato ad impiegarsi in una fabbrica del biellese dove era molto apprezzato perché riusciva a riparare impianti elettrici, impianti idraulici, macchine, biciclette e quanto altro si sfasciava in fabbrica e in casa del proprietario.
…Diedi a Francisco Queyo i natali sotto le mura di Avila, dentro un carrozzone di zingari. Gli feci girare la Spagna per circa trent’anni durante i quali, nelle lunghe soste, gli feci coltivare la pratica della pittura, gli feci raccontare in prima persona d’essere entrato nei musei e nelle chiese, ed avere alternato l’arte del pittore con quella di saltimbanco che volava per i trapezi e correva sulle corde tese tra una casa e l’altra nei paesi dove andava a dare spettacoli.
Ma, scoppiata la guerra civile in Spagna, veniva bastonato dai governativi quando andava nei loro territori perché sospettato spia dei franchisti e da questi perché sospettato spia dei governativi.
Stufo di prendere botte da destra e da sinistra, presa la via dei Pirenei, se ne era andato in Francia dove i “fuorusciti” venivano ricoverati e sfamati.
Ora, a guerre terminate, viveva a Parigi da dove arrivavano i suoi quadri in Italia. …Tuttavia ciò non bastava per ottenere che quei quadri avessero un successo di vendita. Bisognava organizzare le mostre senza rivelare l’indirizzo dell’autore.
Alla persona che io scelsi per portare i quadri nelle gallerie riuscì facile tener segreto l’indirizzo del pittore dimostrando che, se altri l’avessero conosciuto, egli avrebbe rischiato di crearsi dei concorrenti. A scaricare i quadri nelle gallerie ero io, che in quelle occasioni figuravo essere il fattorino del mio amico. E quando i galleristi mi vedevano maneggiare i dipinti con troppa disinvoltura, mi rimproveravano e mi davano della bestia gridando che dovevo stare più attento.
La prima mostra “Queyo” la tenni in via Manzoni a Milano nella galleria Gussoni [nel 1948 ndr]. Confusi col pubblico, nel momento della inaugurazione, c’eravamo io e mia moglie trepidanti e commossi dall’entusiasmo che vedevamo crescere nei visi della gente.
Generalmente le mostre duravano quindici giorni e un buon numero di quadri, alla fine, rimaneva appeso alle pareti. Dopo cinque giorni dalla inaugurazione, la Galleria Gussoni era con le pareti vuote. Tutti i quadri di Queyo erano stati venduti.
Il successo era arrivato anche per via della festa che allo spagnolo tributavano non solo i più importanti quotidiani, ma anche i giornali di provincia. In pochissimo tempo Queyo aveva conquistato il mercato. Richiedevano sue mostre parecchie gallerie della penisola e non pochi desideravano che egli dipingesse i loro ritratti.
Fino a quando il successo veniva decretato al pittore spagnolo e cioè ad uno straniero, i colleghi italiani non avevano nulla da dire, quando però si seppe che i quadri di quel pittore li avevo dipinti io, l’invidia si fece strada e suggerì a galleristi e colleghi molte congetture. Furono avanzate accuse di truffa, di falso, di burla, interessando perfino la magistratura che non poté prendere in considerazione la faccenda senza una precisa denuncia.
…Quando [negli anni ’60 ndr] fu celebrato il processo formale contro Queyo nelle sale del Circolo della Stampa a Milano, promosso da me, da Dino Buzzati e da altri amici, alla domanda del Presidente cosa avessi da dire in mia discolpa risposi: “io non ho fatto i falsi di un pittore esistente ma i quadri autentici di un pittore inesistente”. Centottanta opere compongono l’intera produzione di Francisco Queyo, non una in più. Dopo quella stagione fortunata, io non riuscii a dipingere un solo quadro con lo stesso stile e col piglio che avevo dato a Queyo benché più volte mi fosse stato richiesto. Alla base di quella operazione… vi era stata la povertà dalla quale quei centottanta quadri mi avevano tirato fuori. Alla prima mostra col mio vero nome accorsero in molti che, senza essere stati colpiti dalla vicenda di Queyo, probabilmente non sarebbero venuti.
Il critico Leonardo Borgese, al quale rivelammo la verità Dino Buzzati ed io, scrisse sul Corriere della Sera un pezzo bellissimo in occasione della mia prima esposizione, pur rammaricandosi di non aver intuito prima che dietro alla figura di Francisco Queyo ci stavo io che ne dipingevo le opere.
Io non ho un quadro di quel pittore e me ne duole molto perché gli sono rimasto affezionato e perché, come se non c’entrassi affatto con la sua opera, lo ritengo un artista straordinario.
Il mio esordio col mio vero nome avveniva con i quadri nei quali iniziavo la serie delle “Isole di statue” e delle “Città di statue” – delle quali registravo una sola vendita: quella per me storica fatta al Museo d’Arte Moderna di New York nella persona del direttore Alfred H. Barr venuto a visitare la mia mostra [nel 1949 ndr] mentre era di passaggio a Milano.