CITTÀ E ISOLE DI STATUE
Dal 1946
TESTI CRITICI
…Quando Fiume vi parla di un’isola di statue, statue gigantesche abitabili, che vorrebbe gli facessero costruire, non bisogna stupirsi o, sorridendo, crederla fantastica, perché se non gliela fanno fare Fiume se la fa da solo. È il mecenate di se stesso, si dissangua per Fiume e le sue idee, quello che gli preme è che le cose siano fatte, e ha fretta di farle. La sua pittura in un certo senso è una astrazione, più preziosa, più filtrata, ma le dimensioni della sua fantasia sono quelle del costruire. Fiume dipinge quello che costruirebbe. Nel suo mondo ci si cammina; le isole, le teste, le cupole si assomigliano. E l’analogia ha origine dalle storie fantastiche, regali e comiche, del suo paese. È un Gaudì siciliano…
DINO BUZZATI
…Raccogliete un sasso qualsiasi per la strada. Vi lascerà del tutto indifferenti. Il medesimo sasso, della medesima forma e materia, ingrandito mille volte farebbe già una certa impressione. Provate adesso a immaginarlo alto diecimila metri. Con la testa piegata in su, gli uomini resterebbero a contemplarlo per giornate intere, soggiogati; per vederlo arriverebbero turisti, pittori, fotografi e poeti da ogni parte della Terra. Vogliamo dire che la grandiosità, da sola, determina bellezza (così come al polo opposto, un’emozione estetica può derivare dalla piccolezza, dalla concentrazione, dall’intimità). Gli esempi potrebbero essere infiniti. Rimpicciolite il Gran Canyon o il Cervino alla dimensione di un paio di metri. Riducete la piramide di Cheope alla misura di un fermacarte: che cosa più ne resterebbe? Ebbene, questo sentimento della grandezza, come fonte di poesia – sentimento che, consapevoli o no, gli antichi Faraoni avevano probabilmente sviluppato in sommo grado – è, se non il motivo dominante, uno dei motivi dominanti in Salvatore Fiume pittore, scultore, incisore, scrittore, ceramista, scenografo…
ENZO GUALAZZI
ELENA PONTIGGIA
Salvatore Fiume è un artista che tutti conoscono e pochi sanno chi sia. Gli appassionati d’arte ricordano bene il suo nome, ma l’immagine che hanno della sua ricerca è, spesso, parziale: limitata a un’epoca, se non a un soggetto, della sua produzione. Sfugge, in genere, la complessità del suo lavoro, che non si concentra solo sulla pittura, ma si estende alla scultura, all’architettura, alla scenografia. E sfugge, in particolare, quell’intensa stagione della sua prima maturità in cui Fiume crea un mondo immobile di statue e totem: una stagione, corrispondente al primo decennio del dopoguerra, che è stata chiamata (e che anche qui chiameremo per comodità, ma vedremo meglio in quale senso l’aggettivo vada inteso) metafisica. Come mai un periodo così carico di suggestione, e non privo di riconoscimenti per l’artista (il consenso di critici-poeti come Carrieri e Buzzati; la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1950, grazie all’appoggio di Savinio; il sodalizio con Gio Ponti; l’attività di scenografo alla Scala di Milano; l’acquisto della Città di statue da parte del MoMA di New York, allora diretto dal leggendario Alfred Barr) è stato trascurato, se non dimenticato, tanto che nella cognizione anche di studiosi e specialisti la pittura di Fiume si identifica con un mondo sensuale e morbido di odalische e ginecei, non con una città enigmatica di statue e marmo? Le ragioni possono essere molte, anche a non voler invocare l’arbitrarietà di ogni fortuna critica (habent sua fata picturae…) o l’incidenza di circostanze contingenti. Ce n’è una, però, che non si può tralasciare e che qui vorremmo indicare almeno sommariamente. Il panorama dell’arte italiana, nei primi due decenni del dopoguerra, è stato un campo di battaglia fra due tendenze: il realismo più o meno espressionista e l’astrattismo geometrico o informale. La storiografia ha dato conto di quei due schieramenti, sottovalutando (e spesso dimenticando del tutto) le ricerche che non ne facevano parte. Eppure, benché fossero in minoranza numerica, quelle ricerche esistevano, a cominciare da una figurazione per così dire mentale, lontana dal realismo, dal naturalismo e dall’espressionismo, e legata invece a una lezione metafisica intrisa di memorie classiche (i cui padri, tra l’altro, in quei decenni erano in gran parte ancora viventi e operanti: per fare solo qualche esempio, Donghi scompare nel 1963, Campigli e Usellini nel 1971, de Chirico stesso nel 1978). A questo generale pregiudizio storiografico – e il lettore ci scuserà se l’abbiamo riassunto un po’ alla buona – non si sottrae la stagione appunto metafisica di Fiume. Con l’aggravante che, nel suo caso, non si può comprendere pienamente il vitalismo e la sensualità siciliana, anzi araba e medio-orientale, della sua pittura, se non si considera quel raggelamento marmoreo di forme e figure che ne costituisce insieme l’antitesi e la premessa. Tutta la pittura di Fiume si muove tra due polarità contrapposte: da un lato una fisicità prorompente e incontenibile, dall’altro una sospensione del tempo e della vita. Non si possono capire a fondo le sue visioni di odalische e di geishe giapponesi, di tauromachie e di bestiari onirici, se non si riflette sull’origine di quel vitalismo: il presagio di un mondo immobile, di un popolo di figure che, per usare le parole di de Chirico, “hanno svestito l’orgasmo della vita” e che si dispongono sulla tela come i pezzi di una scacchiera. “Il poter spegnere ogni barlume di vita, di quella vita corrente e spiegabile, nelle figure dipinte, per rivestirle con quella solennità e quella immobilità, dall’aspetto sereno e inquietante, come d’immagini contenenti i segreti del sonno e della morte, è il privilegio della grande arte”, scriveva ancora de Chirico nel 1920, in un brano che Fiume probabilmente non conosceva, ma che avrebbe potuto sottoscrivere…